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Le Macchine Anatomiche del Principe di Sansevero
“In un altro appartamento, che chiamano della Fenice, il quale sta tutto in fabbrica, per renderlo meglio diviso e comodo, si veggono due macchine anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri d’un Maschio, e d’una femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ corpi umani, fatte per iniezione, che, per essere tutti intieri, e, per diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in Europa.
Oltre a tutte le visceri, e le parti interiori del corpo, colla apertura del cranio, si osservano tutt’i vasi sanguigni della testa; e coll’aprirsi la bocca, vi veggono altresì i vasi sanguigni della lingua. Mirabile poi è la delicatezza, colla quale è stato lavorato il corpicciuolo d’un Feto, che morì in un colla Madre, la quale sta in piedi e si fa girare d’ogni intorno, per osservarsene tutte le parti. Vicino a detto bambino vi è la sua placenta aperta, dalla quale esce l’intestino ombelicale, che va ad unirsi al feto nel suo proprio luogo. Anche il cranio di questo piccolo corpicciuolo si apre, e se ne osservano i vasi sanguigni. Le dette due macchine sono opera del Signor D. Giuseppe Salerno Medico-Anatomico Palermitano.”
Questo passaggio della “Breve nota che si vede in casa del Principe di Sansevero” descrive una stanza degna di casa Usher o di qualunque altra casa del terrore di un romanzo o di un luna park. Non è però l’invenzione di uno scrittore, ma la descrizione dettagliata di ciò che un osservatore, due secoli e mezzo fa, si è trovato davanti agli occhi nella più segreta delle stanze di uno dei più ricchi palazzi nobiliari nel cuore di Napoli, il palazzo di Raimondo di Sangro, VII principe di Sansevero. Visione condivisa anche dal Divin Marchese, il marchese De Sade che, durante il suo “Voyage en Italie”, fu ospite del Principe. Per quanto sia vera, una storia che risale tanto indietro nel tempo acquista inevitabilmente un’aurea di irrealtà, si tinge di sfumature fantastiche e diventa comunque un racconto, un racconto dell’orrore in questo caso. Il racconto narra dunque di un palazzo con appartamenti segreti, di un principe, di un duplice delitto forse.
Questo crudele principe, alchimista, mago, forse figlio del Diavolo, prese due servi del suo feudo a Torremaggiore di Capitanata, un uomo e una donna, marito e moglie, e assistito dal medico Giuseppe Salerno, iniettò nelle loro vene una soluzione a base di mercurio che doveva conservare intatti i loro corpi per sempre. Ma il preparato non ebbe l’effetto sperato: l’epidermide e i muscoli si decomposero, il sistema arterioso subì un processo di fossilizzazione vero e proprio, rimanendo attaccato allo scheletro.
Le viscere, tutte le vene e le arterie, dai canali più grandi del torace ai capillari che arrivano alle estremità del corpo e irrorano il cervello, tutto divenne di pietra. Era la fine dell’anno 1739. La leggenda non specifica se quei poveri infelici erano appena morti o ancora vivi al momento dell’iniezione. Ma la donna portava in sé un figlio, un piccolo feto accoccolato nel suo ventre, che morì insieme alla madre. Per liberarsi dall’immaginazione e ritornare alla Storia, ecco un breve ritratto del Principe, secondo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi: “Questo Signore è di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, Filosofo di spirito, molto dedito nelle meccaniche, di amabilissimo e dolcissimo costume, studioso e ritirato: amante la conversazione di uomini di lettere”. Il 30 gennaio 1710 proprio in quella Torremaggiore, oggi provincia di Foggia, terzogenito di Don Antonio e di Donna Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona dei Duchi di Laurenzana, Don Raimondo Maria de Sangro fu un figlio illuminato del suo tempo, scienziato, mecenate, accademico, intellettuale curioso e dal gusto raffinato, con la voglia di sperimentare e meravigliare. Nato Già in vita fu circondato da un’aurea leggendaria, dovuta alle sue “stravaganti” invenzioni, che si potevano vedere in casa sua in una “Esposizione Campionaria Permanente”: una macchinetta che produceva iridescenze e imitava il canto degli uccelli, la “lampada eterna”, la “mensa senza servitù”, un sistema che rendeva potabile l’acqua del mare, la legna e il carbone sintetici, il marmo sintetico, l’archibugio ad una canna da caricare a polvere o a aria, sono soltanto alcune. Anche i due scheletri furono il risultato di uno studio scientifico, e non del folle esperimento che la leggenda ha tramandato. Esistono infatti due documenti relativi a questa vicenda: il primo è un contratto di affitto del 20 gennaio 1763, sottoscritto da Notar Francesco De Maggio, fra un tale Michele Capurro e il Principe, per “un appartamento (…) al primo piano nobile a sinistra dell’androne nella Casa Palaziata alla Strada Infrascata”, con annesse grotte sottostanti; il secondo, stipulato 22 giorni dopo, garantisce a Giuseppe Salerno che il Principe si impegna a sistemarlo “in loco solitario e con tutte le convenienze” affinchè egli possa costruire una “Macchina Anatomica (…) eseguita a puntino con Cera”. Anche se inizialmente ne era prevista una soltanto, le due “macchine anatomiche” furono realizzate perciò nella periferia di Napoli nel 1763, e non a Torremaggiore nel 1739, con “Cera”, cioè costruite con vari materiali e prodotti che il Principe stesso deve aver dato al Salerno. Del resto a quei tempi Charles-Gabriel Pravaz ancora non aveva inventato la siringa, mentre già Ercole Lelli (1702-1766), scultore di legno e cera, aveva riprodotto artificiosamente, utilizzando canapa inzuppata di cera, semola e trementina, dei muscoli che poi aveva applicato su scheletri umani, per l’Istituto Anatomico di Bologna.
Una passeggiata per i vicoletti del centro storico di Napoli: mi lascio alle spalle “Spaccanapoli”, via dei Tribunali, e discendo su via Raimondo de Sangro di Sansevero, la strada che costeggia quello che fu il palazzo dei principi di Sansevero, quel palazzo con le stanze segrete, le invenzioni prodigiose, i due scheletri raccapriccianti. Ma non c’è più nulla di tutto questo: tutta la suggestione si riduce a un muro alto, a ridosso del vicolo, che toglie la luce e dà un senso di oppressione. Via Raimondo de Sangro termina su via De Sanctis, un altro filo della fitta ragnatela di “Furcella”, su cui si apre l’ingresso della piccola chiesa di S. Maria della Pietà, meglio conosciuta con il nome di Pietatella, in passato la cappella privata dei principi di Sansevero. L’interno è un trionfo barocco, fra statue, pitture trompe l’oeil, legni dorati: ogni dettaglio merita di essere osservato attentamente e descritto, più di tutti lo splendido e misterioso corpo marmoreo disteso al centro della cappella. Ci tornerò, ma stavolta attraverso con rapidità la navata e, passando dalla Sacrestia, scendo nella cripta. È uno spazio bianco, ovale, di stile vagamente neoclassico, sormontato da una cupola. In due alte teche di legno e vetro riconosco quelle “due macchine anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri d’un Maschio, e d’una femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ corpi umani”. Eccoli: sono impressionanti, agghiaccianti manichini d’ossa vestiti unicamente dei loro organi, l’immagine di un racconto gotico divenuta realtà. Non c’è traccia dell’orribile feto: quel tocco scenografico da grand guignol del Principe deve essere andato perduto.
Non sappiamo con esattezza quando gli scheletri furono spostati dal palazzo nella cripta della Cappella, ma di certo dopo la morte del Principe, forse per attirare i visitatori curiosi con un’altra “meraviglia”. Sicuramente erano lì nel 1856, quando fu pubblicata la “Storia de’ monumenti di Napoli” di Camillo Sasso.
Proprio adesso che queste macchine sono di fronte a me la leggenda invade di nuovo la mia mente: vedendo da vicino gli organi, le vene, gli scheletri di queste due individui, posso davvero credere alla folle pozione che ha trasformato il loro sangue in pietra. Ma ancora torno razionalmente alla Storia, stavolta grazie all’aiuto della Scienza: esami spettrografici a raggi infrarossi hanno confermato che i due scheletri sono veri scheletri umani, di un uomo e di una donna, ma che tutto il resto è posticcio, fatto di fili di spago, ferro, cera d’api e coloranti (nerofumo, porporina, azzurrite, cinambro). L’impressione davanti queste due macchine, questi due scheletri, quest’uomo e questa donna, spudoratamente, cinicamente dati in pasto allo sguardo voyeuristico dello spettatore, non viene attenuata: il Principe di Sansevero trasforma il nostro sangue in pietra, non con un composto chimico, ma mostrandoci le sue macabre creazioni.
*Foto macchine anatomiche di Claudia Compagnucci per Edizioni Damiano*