Vignettopoli
NON HO NIENTE DA DIRE, MA LO DEVO DIRE
Lo diceva Marcello Marchesi e lui era uno che i suoi connazionali li conosceva bene: “Non ho niente da dire, ma lo devo dire”. Siamo un popolo emotivo, non riusciamo a smorzare i giudizi. E allora in occasione della morte di una figura controversa come quella di Giorgio Bocca il popolo italiano si dilania. Era un partigiano. Onore al combattente della Resistenza. Ma era anche uno che ha scritto dei meridionali che sono gente “orrenda” e di Palermo che è una città che “puzza di marcio, con gente mostruosa che esce dalle catapecchie”.
Una roba da Gentilini o Borghezio, né più, né meno. Mi aspettavo di leggere stamattina coccodrilli che sorvolavano imbarazzati su queste sue prese di posizione. Perciò sobri anche nelle lodi: stendiamo un velo pietoso sulle empietà, ma sempre empietà sono. E invece nossignore! Intellettuale con licenza di dire fesserie perché “vero”. Non c’era niente da dire, se si voleva rispettare la sua memoria. Lasciamo perdere e pace all’anima sua. E invece bisognava dire per forza. Per cui quelle robe incommentabili per livore razzista sono diventate incommentabili perché “vere”. Cioè espressione di libertà di giudizio. Cioè si può dire tutto, basta scrivere su uno dei giornali ascritti alla confusa area dell’opposizione.
Che ha margini molto imprecisi, confini molto labili. Disse proprio quelle robe lì, Giorgio Bocca -strano, ma vero – robe che non hanno nulla a che fare con la sinistra. Eppure c’è una sinistra che in queste ore lo sta canonizzando. C’è una spiegazione, sia per lui, sia per quelli che ne tessono un acritico e retorico elogio funebre. Si chiama egemonia culturale. E’ un humus di sentimenti, passioni, schemi dialettici e comune sentire che calpestano tutti, sia a destra, sia a sinistra. E’ il terreno su cui si esercita il dibattito in un dato momento storico, l’ambiente culturale omnipervasivo, influenza tutte le menti, le voci discordi sono ignorate: giungono attutite da “fuori campo”. L’egemonia culturale degli ultimi decenni la conosciamo bene e ne parliamo sempre, ma non sempre la sappiamo riconoscere: ci riempiamo la bocca di “berlusconismo”, poi però quando s’insinua nella nostra area, non ce ne accorgiamo.
Abbiamo elencato tutte le facce di questo fenomeno, però non sempre riusciamo a smascherarle. C’è quella della divisione e l’abbiamo sviscerata in tutti i suoi aspetti, salvo non riconoscerla nelle analisi di Bocca. Che ci è incappato alla grande nelle sue pennellate fosche con cui ha analizzato il Mezzogiorno. Tranciando giudizi offensivi sotto il profilo del merito. Confondendo cause per effetti, sotto il profilo del metodo. Forse a causa della sua formazione illuministica, che ribalta il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Vizio dell’illuminismo: la colpa è delle menti della gente, non dei rapporti strutturali e sociali. Per cui bisogna cambiare le teste, poi tutto funziona. E invece è il contrario: se vuoi incidere nella realtà, devi mettere mano alle condizioni strutturali, devi incidere nel cuore dei rapporti sociali. Se no ti riduci a fare il predicatore e a sognare una palingenesi delle coscienze che non si sa perché dovrebbe avvenire, se non per virtù dello Spirito Santo. Vizio dell’illuminismo: l’analisi che facilmente scivola nel giudizio moralistico. Bocca che invece di mettere sotto la lente d’ingrandimento i processi profondi che agitano il Mezzogiorno punta il dito contro le sue genti brutte, sporche e cattive. Facile l’obiezione: pure i Milanesi fanno schifo perché la “Milano da bere” era un troiaio. Di questo passo ci riduciamo tutti a rinfacciarci i vizi reciprocamente, ma non facciamo un passo avanti per la soluzione dei problemi. Onore al partigiano, ma l’intellettuale era succube dell’egemonia culturale imperante. E parte della sinistra idem.